Il tesoro dei Templari alla Valle Benedetta
Dopo lo sbarco a Livornia e la guarigione del giovane Leontino, i Templari decisero di prendere in custodia le 4 reliquie e scaricare il trono degli ebrei dalla Barcas Fenix e portarlo al Conventaccio alla Poggia. Il percorso fu abbastanza facile per la presenza di una strada che portava alla pieve di San Andrea, un insediamento in quel momento di grande importanza, molto ampio e attivo. Questa pieve fu anche un importante punto di appoggio per gli eremiti neri che vivevano nel Conventaccio che era qualche centinaio di metri più in alto. La pieve di San Andrea di adagiava ai piedi della collina. Alcune proprietà sembravano far parte della collina stessa come quadri su un muro. Sembrava che la pieve e la collina fossero state create insieme come se fosse un’unica struttura.
I quattro personaggi (Roberto da Volterra, il Predicatore, il Cavaliere dei due elmi e il Mago Armeno) arrivarono alla pieve con un seguito di circa 50 uomini. Alle porte della pieve, per la prima volta, il mago armeno parlò con il cavaliere dei due elmi che gli mise una mano sulla spalla, lo voltò e gli disse:
“Tu che porti nelle loro vene il sangue di Tigran, voltati e ascoltami perché ora risponderò alla tua domanda. Ti stavi chiedendo dove fossi quando la nostra gente fu attaccata dal califfo di Ayrivank. Bene, sappi che se avessi la spada che tu porti, potrei salvare la mia gente. Altre tragedie e altri giorni di fuoco sono all’orizzonte.
Ora ti dico: prendi questa sacra reliquia, ma consegnami la tua spada in modo che io possa impugnarla contro qualsiasi nemico del nostro popolo”
Detto questo, i due personaggi si misero uno di fronte all’altro scoprendo la loro testa per la prima volta. Il cavaliere si tolse l’elmetto e il mago armeno si tolse il berretto. I due personaggi erano incredibilmente simili: stesso taglio di capelli, stessa barba, anche i volti erano molto simili. Posto uno di fronte all’altro sembravano la stessa persona.
I Cavaliere dei due elmi consegnò la spada con l’intero fodero al mago armeno. Il mago armeno estrasse la spada e la sollevò in cielo. All’improvviso si udì nel cielo un ululato bestiale, come un ruggito. In alto nel cielo apparve un grosso uccello che sembrava sputare fuoco. Aveva gambe con artigli potenti e ali uncinate. Si stava librando lasciando tracce di fuoco e si dirigeva verso le colline.
C’è un’altra versione della storia tramandata oralmente dagli abitanti della parrocchia: si dice che quando il Mago Armeno sollevò la spada verso il cielo, fu lui a trasformarsi in una bestia metà fiera e metà uccello con zampe di leone, becchi ali rapaci e brucianti. Questa leggenda è stata raccontata per secoli, almeno fino al 1600, quando la parrocchia di Sant’Andrea era già stata distrutta. Infatti, la parrocchia fu abbandonata nel 1277 e nel 1600 sui suoi resti fu costruita una bellissima villa. La villa è ora chiamata “villa limone”. Al momento della costruzione, i proprietari, informati di questa leggenda, volevano lasciare una traccia della storia e costruirono un bassorilievo raffigurante la leggenda. Questa scultura è ancora presente da qualche parte nella villa. L’immagine pubblicata mostra esattamente quella scultura. Ci sono tutti gli elementi fondamentali della storia: l’elmo, la fiera, la spada e la croce ….
Qualunque sia la verità, più o meno fantasiosa, il fatto è che il mago armeno prese la spada confondendo la reliquia, e poi se ne andò.
Ora i Templari dovevano risolvere tre problemi: trovare un luogo adatto per il trono degli ebrei, per le quattro reliquie e per l’immenso tesoro accumulato negli anni di guerra in Palestina ed Egitto. I Templari decisero di nascondere tre delle quattro reliquie e il trono degli ebrei nel convento del Conventaccio. La quarta reliquia, la più importante, fu lasciata sulla nave Fenix in attesa di essere trasferita tranquillamente in un luogo sicuro. La quarta reliquia era chiamata “Corpus Sancto”. I Templari dovevano trovare anche un posto per nascondere il tesoro. Anche il tesoro aveva un ruolo importante: doveva essere usato per finanziare un’altra crociata. Il tesoro consisteva in statuette d’oro, simboli pagani degli egiziani, collane, anelli e gioielli arabi e arredi religiosi dallo stampo ebraico. Tutto materiale ingombrante e facilmente riconoscibile e per questo doveva essere nascosto e reso irriconoscibile.
La parrocchia di Sant’Andrea era famosa per la presenza di un’officina molto grande e affollata, dotata di fornaci in grado di fondere metalli di ogni genere e di attrezzature con tecnologie molto avanzate. Questo laboratorio aveva dato lavoro a molti artigiani e fabbri, e aveva prodotto armi, ornamenti per armature, ornamenti per il cantiere navale di cavalli e chiodi.
Il laboratorio era molto grande e da lì partivano una serie di tunnel scavati nella montagna da cui venivano estratte alcune materie prime che poi venivano utilizzate. Nel tempo alcuni tunnel furono ampliati, altri furono intonacati. Alcuni tunnel furono bloccati perché pericolosi, tanto che, nel corso dei secoli, molti avventurieri non tornarono più da quelle gallerie. I tunnel, però, non erano tutti chiusi, alcuni portavano a 30 tombe etrusche, già conosciute in epoca romana. Alcune gallerie erano anche illuminate naturalmente. Le pareti di queste grotte, infatti, erano formate da una pietra fosforescente chiamata vulcano e, nei punti in cui non era coperta, generava delle luci molto intense.
La presenza della fonderia nella parrocchia, suggerì a Roberto da Volterra l’idea di fondere tutto il tesoro in modo che fosse possibile contenerlo e nasconderlo meglio. L’idea era quella di fondere tutto il tesoro e trasformarlo in grandi monete con l’effigie del volto di Cristo. Così Roberto parlò al caposquadra. Era un fabbro esperto che aveva servito per i crociati come spadaccino in terra santa (crociate, non templari, c’è una grande differenza). Questo fabbro era un personaggio particolare, il suo nome era Limontino, era molto grande, come un gigante, alto più di due metri e molto irascibile. Non rispettava alcuna legge né costituiva autorità né religione ma, nonostante tutto, era tenuto in grande considerazione. Il maestro indiscusso di tutta la parrocchia. Anche durante le cerimonie e gli eventi più importanti, si sedeva insieme ai più alti uffici sia militari che religiosi.
Il fabbro accettò il lavoro e, alla richiesta della dimensione che avrebbero dovuto avere le monete, Roberto rispose formando un cerchio con le sue mani, combinando i due indici e i due pollici, il fabbro estrasse dalla tasca un foglio e lo utilizzò per misurare il diametro del cerchio fatto da Roberto con le mani e disse: “beh, questa sarà la misura”.
Per l’occasione, il fabbro creò uno stampo di argilla. Oro e argento si fusero insieme e questo fece ciò che le grandi monete prendessero un colore verdastro. Il fabbro fece un ottimo lavoro tanto che era possibile vedere perfettamente, da un lato delle monete, che il volto raffigurato era quello di Cristo. Le monete furono coniate impilate e nascoste in un tunnel del monte Poggia.
Ma torniamo alla questione della nave mercantile veneziana noleggiata dai Templari. Una volta che il tesoro fu sistemato e le tre reliquie nascoste al Conventaccio, rimase solo il problema di raccogliere la reliquia chiamata “sancto corpus” dalla barca veneziana semi-incagliata sulla costa di fronte alla chiesa di San Jacopo.
Roberto da Volterra aveva deciso di nascondere o distruggere la nave per ovvie ragioni: voleva nascondere le prove dello sbarco, del suo tradimento (Roberto secondo gli ordini papali doveva andare a Roma, non a Livorno) e dell’ammutinamento dell’equipaggio veneziano. Inoltre, se fosse stata identificata, avrebbe svelato il punto di sbarco dei Templari.
Ma all’interno della nave c’era una reliquia affidata al predicatore, che, insieme ad alcuni Turcopoli, la proteggeva, pattugliava la costa e sorvegliava la nave.
Come promemoria è giusto dire che il Mago Armeno era scomparso, il cavaliere dei due elmi si era fermato al Conventaccio per proteggere le tre reliquie, il predicatore stava vegliando sulla reliquia nella nave e Roberto si stava occupando del tesoro.
E proprio mentre Roberto lavorava nella fucina della parrocchia di Sant’Andrea, fu raggiunto da un messaggio del predicatore che gli diceva di raggiungerlo sulla nave perché era successo qualcosa di veramente unico e importante. Così, poco dopo Roberto raggiunse il luogo e trovò il predicatore in uno stato confusionale tanto che non riusciva a parlare. Il predicatore riuscì solo ad alzare un dito per mostrare a Roberto la nave veneziana. Roberto rimase sbalordito quando vide la nave: era completamente ricoperta di vegetazione. All’inizio credeva che la nave fosse stata coperta di rami, ma ben presto si rese conto che era proprio il legno della nave che era stato rianimato. Ogni pezzo di legno della nave aveva fiorito. Ovunque c’erano foglie, bacche e nuovi ramoscelli. La chiglia di quercia, era coperta di corteccia. Persino l’albero maestro era rinato ed era tornato ad essere un maestoso abete rosso. Nel quarto di ponte, dove era presente la sala di controllo con la reliquia, si sentiva un odore di castagna.
Roberto fu incredulo e stupito chiese al predicatore una spiegazione di ciò che stava vedendo. A quel punto il predicatore raccontò un episodio incredibile: tutto ebbe inizio quando una guardia Turcopole sentì dei rumori provenienti dall’abitacolo. Quando il Turcopole entrò nella cabina, trovò un bambino di 3 o 4 anni apparentemente molto piccolo che giocava con un astrolabio. Quando il bambino si accorse del Turcopole, iniziò a correre attorno all’albero ridendo. Per la sua età quel bambino correva molto veloce e il Turcopole non riusciva a prenderlo. Ad un certo punto il bambino toccò l’albero e in quell’istante, l’albero tornò in vita. Da lì, in tutta la nave, tutto ciò che il bambino toccava tornava in vita.
A quel punto il Turcopole decise di chiamare il predicatore ma quando il bambino lo vide smise di correre e ridere, gli andò incontro e toccandogli la barba disse:
“Mi piace molto questo posto, tornerò presto a giocare con te”
poi tornò nella cabina di pilotaggio e chiuse la porta. Dopo un po’ il predicatore entrò nella stanza: il bambino se ne era andato, la reliquia era ancora al suo posto e il tavolo fatto di ciliegia, era pieno di frutti di ciliegia.
Dopo aver ascoltato la storia del predicatore, Roberto si rese conto che non era possibile distruggere la nave. Il bambino sarebbe tornato perché gli piaceva quel posto … Sulla storia molto interessante del bambino torneremo perché si scoprirà che anche sant’Agostino ebbe uno strano incontro con questo bambino, proprio sulla riva del mare dove era la nave veneziana. Chi era quel bambino? cosa voleva? perché era lì?
Nel frattempo anche il caposquadra Limoncino, incuriosito dalla storia, aveva raggiunto la chiesa di San Jacopo. All’arrivo sulla costa vide Roberto e disse:
“con una nave del genere avresti bisogno di un equipaggio di scimmie“
e Roberto rispose:
“Toglila da qui e diventerai così ricco da poter comprare un’incudine d’oro”
Limoncino dopo un momento di silenzio replicò:
“dimmi solo dove vuoi che porti la nave e consideralo fatto“
Quindi disse Roberto.
“Voglio nasconderla, ma anche preservarla, le grotte all’interno della tua fucina sarebbero perfette“
Limoncino rispose che sarebbe stato necessario smantellare la nave pezzo per pezzo e poi rimontarla nella grotta, ma alla fine fu presa una saggia decisione: solo il ponte di poppa con la cabina di pilotaggio e la reliquia sarebbero stati smontati e rimontati in una grotta. Venne utilizzata una grotta nascosta e fino a quel momento inesplorata.
Prima fu smantellato il castello di poppa, poi i due timoni, a seguire gli alberi e le vele, persino i mobili, solo la chiglia rimase intatta con i due moli. La nave era lunga circa 36 braccia e 13 larghe, il trasporto non era cosa da poco, ma il fabbro Limoncino ebbe un’idea brillante. Limoncino si ricordò che aveva quasi terminato un progetto che avrebbe potuto essere molto utile. Alcuni mesi prima il sindaco di Pisa, Ubaldo Visconti, commissionò al fabbro Limoncino, per conto del partito Ghibellino, la costruzione di un gigantesco ariete da guerra lungo circa 30 braccia con 8 ruote per lato, un’arma davvero impressionante. Questo ariete doveva far parte dell’arsenale utilizzato dai Ghibellini per muovere un attacco contro Firenze partendo da Livorno. Il caposquadra Limoncino ebbe l’idea di usare la base di ariete come se fosse un carro per trasportare la nave a destinazione.
La squadra di Limoncino, con l’aiuto dell’alta marea e alcuni tronchi imbevuti di olio di balena, riuscì a mettere la nave sul carro. Furono necessari 60 uomini, l’aiuto di due giganteschi uri e di varie bestie da soma per raggiungere l’impresa. Il carico pesante fu trasportato in cima alla collina “la Poggia” in tre giorni. Non fu un compito facile. Alcuni uomini preparavano la strada rimuovendo pietre e alberi. Arrivato vicino alla cima della collina, il carro si inclinò e la nave scivolò per alcuni metri e rimase bloccata tra gli alberi appoggiandosi su un fianco come un relitto. Sebbene questo non fosse il luogo scelto da Roberto per nascondere la nave, si decise di lasciarla lì. La leggenda narra che la nave potrebbe essere ancora lì, nascosta tra la vegetazione
La leggenda narra che ogni anno, nell’anniversario dell’apparizione del bambino, attraverso gli alberi della foresta si possa vedere un abete rosso.
La nave giaceva sdraiata sul bordo della collina e da quel momento la collina fu chiamata la “Poggia”. In effetti in una lingua nautica La Poggia è il lato sottovento della nave.
Il castello di poppa, invece, fu collocato nella grotta all’interno della collina La Poggia. Dal momento che il ponte di poppa non poteva da solo dare l’idea di una nave, Roberto da Volterra escogitò un modo per dare l’idea di insieme. All’interno della grotta c’era un enorme masso che dava l’impressione di una chiglia di una nave. Roberto chiese a Limoncino di costruire da quella pietra una scultura che rappresentasse una nave su cui poggiare il ponte di poppa. Una volta terminato il lavoro, Limoncino e la sua squadra sembravano davvero vedere una vera nave.
Detto così sembra molto semplice, ma non lo fu. Nessuno voleva entrare nella grotta, era un posto strano e pericoloso. Gli uomini di Limoncino e lui stesso dicevano che quello era il regno del Romitone e che non volevano entrare. Fu necessario un grande sforzo per convincerli. Ma alla fine l’idea di Roberto fu realizzata e si dice che la nave sia ancora lì.
Quando, secoli dopo, Leale Martelli entrò nella grotta, pensò di vedere una nave pietrificata, una specie di fossile, ma era davvero una pietra. Ma questa è un’altra storia ….
La fonte di Acquaviva, per ovvie ragioni, nel corso dei secoli è stata nascosta, ancora oggi i fedeli della grotta di San Jacopo visitano una grotta immaginaria. La grotta originale era un vecchio modo di comunicare tra i due monasteri, si estende per diversi chilometri sotto la città di Livorno e termina all’eremo di Sambuca..