Dall'Egitto a Livornia

Tutto nacque nell’agosto del 1221, quando il cardinale Pelagio[1], vista la situazione in deterioramento in Egitto, decise, per ordine del papa, di raccogliere tutte le reliquie trovate in Palestina e i tesori rubati in Egitto. La sua intenzione era di caricarle su una nave crociata, comandata dai Templari Ospedalieri Italiani (da Pisa e Genova), e condurle sane e salve a Roma dove sarebbero state conservate.
Alcuni di questi tesori furono raccolti in una moschea nella città egiziana di Tanta. Una squadra di Templari, comandata da un sergente ospedaliero italiano della Commenda di Volterra, fu incaricata di raccogliere il tesoro dalla moschea e di portarlo molto rapidamente al porto di Damietta. A Damietta avrebbero trovato una piccola flotta di templari pronta a salpare verso le coste italiane della Campania, e da lì il viaggio per Roma sarebbe continuato su strada.
Durante il caricamento dei tesori trovati nella moschea, il Cavaliere Sergente Roberto da Volterra, per controllare i lavori da una posizione favorevole, si era seduto su un trespolo che sembrava un trono. Il Sergente fu immediatamente incuriosito dallo strano oggetto, che tra l’altro, non era neanche contenuto nella lista degli oggetti da trasportare, e a causa di alcuni scritti e simboli, presumibilmente ebraici, intarsiati su di esso, lo chiamò “il trono degli ebrei”. Mentre aspettava che tutto il materiale fosse caricato, il sergente iniziò a tagliare via quell’oggetto e, non sappiamo se per il caso o la volontà dell’oggetto stesso, il sergente fu in grado di avviare la macchina: lo strano oggetto si mise in moto e uno schermo cominciò a brillare e mostrò immagini che ritrassero il sergente Roberto quando era giovane. Questa visione scatenò nei presenti, una sensazione mista tra un timore reverenziale e paura, tanto che alcuni dissero che era opera del diavolo e che l’oggetto era maledetto e non doveva essere preso. Il comandante, sebbene spaventato, decise comunque di portare via l’oggetto misterioso, ma il problema era che era molto pesante e i pochi uomini a disposizione non erano sufficienti per trasportarlo.
Per fortuna alcune truppe Turcopoli[2], alleate dei Templari, stavano passando di lì a cavallo e, benchè apparissero disorganizzati, erano sicuramente numerosi e ben equipaggiati persino di carri. Così i Templari decisero subito di chiedere loro aiuto, in cambio della promessa di terre in Italia e di una nuova vita, e i Turcopoli accettarono e portarono l’oggetto a Damietta.
Arrivarono a Damietta appena in tempo per salpare verso l’Italia ma vi fu pesante conflitto tra i Turcopoli e i Cavalieri Teutonici. I Cavalieri Teutonici volevano imbarcarsi sulla nave che sarebbe servita ai Templari per portare sulle coste italiane i tesori e l’oggetto misterioso.
Quando i Templari arrivarono vicino al porto di Damietta, il porto era già assediato dai musulmani, quindi i Templari mandarono un Turcopole a cavallo per avvisare l’equipaggio del loro arrivo in modo che potessero caricare velocemente e partire.
La lotta fu dura, con numerosi decessi e feriti, ma alla fine gli alleati templari con i Turcopoli riuscirono a salpare. Tuttavia, a causa di questa battaglia, il destino dell’equipaggio cambiò e la nave invece di dirigersi verso le coste campane cambiò rotta. Fù Roberto da Volterra a dare l’ordine di cambiare rotta e lo fece per un motivo ben preciso. Durante lo scontro, infatti, un uomo delle truppe del sergente Roberto da Volterra si ferì gravemente. Si chiamava Leontino il giovane. Leontino durante la battaglia cadde dal ponte della nave e subì un infortunio alla colonna vertebrale e rimase paralizzato. Non sappiamo esattamente chi fosse, qualcuno dice che era il figlio segreto di Roberto, altri dicono che era suo nipote, altri che era il fratello minore e ancor più che era l’amante.
Roberto decise di dirigersi verso la costa tra Pisa e Livorno perchè aveva sentito parlare tra i soldati di una fontana miracolosa che si trovava vicino alla chiesa di San Jacopo a Livorno. “La fonte di acqua viva”, famosa sin dai tempi dei romani. Roberto voleva immergere Leontino nella fonte per curarlo.
Per ora continuiamo con la storia e con i personaggi che sono in qualche modo parte della storia misteriosa degli oggetti.
La nave da carico latina utilizzata dai Templari si chiamava “La Foenix” ed era già dotata di un equipaggio composto da: un comandante, due skipper, venti marinai e due buoi che trasportavano un “verrocchio” (una specie di argano).
L’oggetto misterioso era stato confezionato a Tanta con pelli di cammello, molte delle quali non erano seccate correttamente e questo creava un problema di cattivo odore. A peggiorare le cose sul cattivo odore, oltre al calore, c’era anche il grasso animale che era stato usato per far scivolare l’oggetto sul carro dei turcopoli. L’equipaggio cercò di risolvere il problema bagnando l’oggetto con aceto, ma con scarsi risultati. Parlare qui della tecnologia dietro l’oggetto misterioso è senza dubbio prematuro. La storia dell’oggetto è di un’immensità quasi inimmaginabile.
Una quarta e forse più importante reliquia fu affidata all’uomo che la trovò e che stava aspettando Roberto da Volterra nella moschea di Tanta.
Il cavaliere seguì Roberto da Volterra, ma non era sua intenzione consegnare la reliquia al cardinale Pelagio[3], legato pontificio. Roberto non si oppose al cavaliere in quel momento e decise che avrebbe affrontato il problema in seguito, soprattutto perché Roberto, come il cavaliere, non approvava la strategia militare del cardinale diacono Pelagio. Secondo Roberto, infatti, Pelagius era un uomo senza saggezza e senso del valore.
Roberto da Volterra, non conoscendo molte lingue, chiese l’aiuto di un interprete, una persona che sarà molto importante in questa storia. Il monaco aiutò molto Roberto tanto che possiamo dire senza dubbio che qualsiasi decisione presa da Roberto fu raccomandata e supervisionata dal monaco armeno. Il monaco seguì Roberto dall’Egitto fino alla Valle Benedetta, che però a quel tempo non si chiamava Valle Benedetta.
Durante il viaggio verso Livornia, il mago armeno dimostrò la sua grande esperienza. Anche durante il viaggio, aveva predetto che dopo pochi giorni ci sarebbe stata “la calma” e aveva anche previsto che dopo quello che sarebbe finito tutto. Poteva parlare con pesci e uccelli marini. Si dice anche che non abbia mai dormito durante l’intero viaggio e che nessuno lo abbia visto riposare.
Un altro aneddoto curioso: i due grandi tori erano una coppia di uri che grazie alla loro forza venivano usati per trasportare le merci più pesanti. Furono proprio i due uri, una volta sbarcati a Livorno, a portare l’oggetto misterioso alla poggia dove c’era il Conventaccio. Dopo di chè i due grandi bovini furono collocati nella pianura in un luogo vicino alla valle benedetta chiamato Salvius dove erano sorvegliati dai monaci locali. Una volta deceduti furono sepolti lì nella zona. Sarebbe molto interessante se un giorno per caso venissero trovati i loro resti con tanto di documentazione e testimonianze scientifiche che potrebbero avvalere di parte di questa storia.
Subito dopo che la nave salpò da Damietta uno dei marinai si ammalò. Dato che la nave si trovava vicino alla costa siciliana, si decise di dirottare verso il porto di Messina, dove il timoniere avrebbe potuto ricevere cure migliori / le dovute cure. Dato, però, che le condizioni del giovane Leontino non miglioravano, per non perdere tempo, Roberto decise di portarlo a Livorna, anche lui nella chiesa di San Giacomo per immergerlo nell’acqua, chiamata Acquaviva.
Il Mago Armeno, però espresse a Roberto i suoi dubbi sulla riuscita di questa operazione perché la cripta era ormai preclusa da tempo e solo pochi monaci agostiniani potevano entrarci. Così l’armeno suggerì a Roberto di contattare il predicatore, una volta arrivati a Messina, perché avrebbe potuto intercedere con il priore della chiesa di San Giacomo. Roberto non fece molti sforzi per convincere il predicatore a partire con loro per Livornia, gli bastò mostrargli la reliquia all’interno dell’elmetto. Anche la presenza del mago armeno e del cavaliere dei due caschi giocarono un ruolo importante nella scelta del Predicatore, il Predicatore aveva sentito parlare molto di lui dai crociati che tornavano dalle terre del campo di battaglia.
Lasciato il porto di Messina, dopo aver imbarcato anche il predicatore, Roberto dovette informare del cambio di rotta e destinazione all’equipaggio della nave mercantile noleggiata dai veneziani. La destinazione non sarebbe stata più la costa campana, ma il porto pisano vicino a Livornia. Inizialmente, il capitano dell’equipaggio non era d’accordo, ma Roberto lo convinse mostrandogli il vasto tesoro caricato sulla nave e promettendogli che avrebbe dato a lui e ai suoi uomini tutto ciò che potevano prendere con una mano.
Le navi mercantili latine della compagnia veneziana, di solito costeggiavano la costa durante la navigazione verso l’Italia ma in questa circostanza, per motivi di sicurezza, fu presa la decisione di navigare in mare aperto. A causa del cambio di direzione e del maltempo, ci sono voluti più di trenta giorni per raggiungere i primi fari da “Ante ignem” sulla costa di Livornia, che si trovava poco prima del porto di Pisano.
Inizialmente l’idea era quella di sbarcare nel porto pisano presso il “portus Magnalis”, per poi trasferire il carico in “fundacum magnum”, ma data l’eccezionale natura del carico, che sarebbe stato sicuramente controllato con tutti i rischi relativi, fu deciso di ascoltare il consiglio del predicatore e di far sbarcare la nave in una piccola insenatura naturale ad “Ardentia”, utilizzata dai romani come piccolo porto e vivaio di pesci. La baia non era lontana dalla chiesa di San Giacomo. In tal modo speravano di attraccare senza che nessuno controllasse il carico. La cosa riuscì perfettamente.
Due giorni prima dell’attracco della nave nella baia di “Ardentia”, mentre la nave era attraccata di fronte alla chiesa di San Giacomo, fu messa in mare una “scafa” (una specie di scialuppa di salvataggio), che trasportava il ferito Leontino e la diressero verso la fonte Acquaviva nella cripta della chiesa di San Jacopo. Nella scafa con Leontino c’erano Roberto, il mago armeno, il predicatore e il cavaliere dei due elmi. Il mare era particolarmente mosso e rendeva particolarmente difficili le manovre di ormeggio ma il mago armeno toccò le acque e queste si placarono all’istante.
Fu allora che, per la prima volta, il Cavaliere dei due elmi si rivolse al mago armeno e gli disse:
“Mi chiedo sempre dove fossi quando Ayrivank fu distrutta, i tuoi trucchi da stregone avrebbero potuto probabilmente spaventare il califfo!”
Una volta arrivati sulla riva, Leontino fu trasportato proprio nella cripta dove sorgeva l’Acquaviva. Il corpo fù adagiato vicino alla sorgente per alcuni minuti, tutt’intorno c’era un grande silenzio. Tutti guardavano senza fare nulla. Il cavaliere dei due elmi, quando arrivò alla fonte, riempì l’interno dell’elmetto con acqua della fonte. In pochi secondi la reliquia, rappresentata da una coppa, si staccò dal casco e una volta riempita d’acqua fu avvicinata a Leontino e con questa venne bagnato. Dapprima non successe nulla, dopo alcuni minuti Leontino iniziò a lamentarsi di un terribile mal di schiena, ansimando, e rigirandosi sul terreno. In tutto ciò non si accorse di aver riacquistato l’uso delle gambe e in pochi secondi svenne. Si svegliò il giorno successivo e riusciva a camminare di nuovo con l’aiuto di una stampella. Non fu chiaro se il merito della guarigione fosse della coppa o dell’acqua o di entrambi.
Questo apre un altro capitolo della coppa. In breve: vista la sua proprietà e la sua storia passata, si decise di creare una copia esatta della coppa, totalmente uguale sia nelle caratteristiche che nel peso. Fu chiamata il sacro calice della Sambuca, perché era custodito nell’eremo di sambuca e mostrato al posto di quello reale. C’è un aneddoto che dice che forse le due coppe sono state scambiate, tanto erano uguali che non potevano più riconoscerle. Quindi quella esposta come una copia potrebbe essere quella vera. Tuttavia, la sacra coppa della Sambuca è ancora esistente, conservata in alcuni istituti o musei religiosi. Ci sono documenti che lo certificano.
Dopo la guarigione di Leontino il giovane, i quattro personaggi, il cavaliere dei due elmi, il mago armeno, il monaco agostiniano chiamato il predicatore e Roberto da Volterra, si radunarono nella chiesa di San Jacopo e decisero che ognuno avrebbe conservato una reliquia e che avrebbero costruito un monastero per ognuna di esse. Quattro reliquie, quattro monasteri.
Decisero di costruire i monasteri in un luogo sicuro, sulle colline piramidali che si potevano vedere dal mare, quella che è ora la Valle Benedetta. A quel tempo non si chiamava Valle Benedetta e i quattro personaggi soprannominarono quelle colline con nomi biblici: Tabor, Oliveto, Nermon e Golgotha, dove furono issate tre gigantesche croci.
Dato che a quel tempo c’era già un monastero in località La Poggia (Tabor), chiamato il Conventaccio, i quattro personaggi decisero di portare l’oggetto misterioso, le reliquie e parte del tesoro in quel monastero in attesa di costruire gli altri tre. I tre monasteri furono costruiti nel corso degli anni secondo questa cronologia: Conventaccio, che esisteva già, la chiesa di Santa Lucia, la grande cattedrale (oggi Villa Huighens), l’eremo della Sambuca e la Chiesa della Valle Benedetta.
Nel frattempo, l’equipaggio della nave latina veneziana aveva lasciato la zona, senza però tornare al servizio veneziano. Si erano ammutinati e con l’oro ricevuto da Roberto da Volterra si erano ricostruiti una vita. I Turcopoli, invece, fondarono una dinastia di pirati alla Valle Benedetta e utilizzarono l’area per nascondersi. L’ultimo comandante, nel 1600, fu chiamato il Moro della Valle.
Questa storia, molto semplificata, spiega il motivo che ha portato i Templari a raggiungere la Valle Benedetta.
[1] Pelagio Galvani, o Pelagio d’Albano (altri nomi, oltre all’originale in portoghese Paio Galvão, sono Pelayo Gaytan, Pelagio di Santa Lucia, Pelagius Albanensis; Guimarães, 1165 circa – Montecassino, 1230), è stato un benedettino portoghese o leonese,[1] cardinale e dottore in Diritto Canonico.[2] Fu nominato nel 1219 legato pontificio e guida religiosa della Quinta Crociata, ma la sua intransigenza e il suo fanatismo ideologico furono le principali cause del fallimento della Crociata
[2] I Turcopoli (dal greco Τουρκόπουλο: figlio di turchi) erano arcieri a cavallo appartenenti all’ordine dei Cavalieri templari e dagli altri Ordini cavallereschi: Ospitalieri e Teutonici durante il periodo delle Crociate. Erano in genere indigeni palestinesi (turchi e arabi), spesso mercenari, che avevano abiurato la religione islamica. Furono impiegati per la prima volta dai Templari e costituivano reparti di cavalleria leggera, con compiti di appoggio per la cavalleria pesante. Erano guidati da un comandante detto Turcopoliere o capitano generale della cavalleria.